martedì 7 febbraio 2017

IL BENE DEGLI ALTRI


Lavorare in quel posto per me era diventato quasi impossibile, perché quel luogo lo paragonavo sempre più all'oblio, quello profondo, che si prestava più alla psichiatria che alla sanità mentale e mi domando, ancor oggi che fortunatamente ne sono lontano, se era un oblio cosciente o incosciente. 

Perché ho voluto spesso vendicare me stesso là dentro, malgrado tutto, aspettando proprio il momento di una schiarita del cielo sopra la mia testa per sferrare l'attacco. Per colpire, con più veemenza, condannando il nemico al mio giogo per vederlo perire sotto alle mie bordate. Non mi rendevo conto che gradualmente così facendo avevo assunto la stessa immagine e consistenza di quei mostri e che il bambino impaurito e prigioniero dentro di me quasi mi detestava. Io che quel bambino l'avevo protetto con veemenza, sentendolo piangere più volte nella notte, non capivo perché col proseguire degli anni non riusciva più a vedere in me un amico. 

Gli facevo paura e onestamente parlando facevo paura anche a me stesso. Mi sentivo come un demonio e vedevo gli altri raccogliere tacitamente questa stessa idea. Cosa volevo dimostrare? Che la vendetta era più forte della morte stessa, quasi come ne Il Canto dei Filosofi? Oppure volevo soltanto render loro quella fottuta pariglia, vendicando tutte le mie sofferenze? Che cosa poi esattamente? Ora che da anni sono fuori da tutto questo non è ancora perfettamente chiaro nel mio spirito ciò che è accaduto, e forse non lo sarà mai. Trent'anni dopo vorrei dire che non lo rifarei, ma non avrei dovuto attendere tutto questo tempo per dirlo, poiché trenta minuti sarebbero stati sufficienti. 

Perché si può sopravvivere alla vita nel gregge pur non amando o odiando in continuazione, in quanto per vivere non è necessario abbracciarsi o baciarsi sulla bocca ovunque e comunque. Sono peccati di gioventù questi che erano durati anche troppo tempo. In gruppo ci si spia, si è gelosi, ci si detesta anche. Bisognava sopportarmi e bisognava che io sopportassi loro, tutti quanti. Lavorare in squadra non è semplice, poiché questi collettivi non si scelgono l'uno con l'altro, ma devono necessariamente vivere e agire in comunità. Le squadre lavorano come in una sorta di patto sociale rinnovato dallo stesso successo personale dell'individuo, dal quale vi è una chiara correlazione. Poiché è il rispetto di questo contratto che costituisce il valore di una squadra e di conseguenza, del singolo individuo stesso. 

Non ci sono squadre che se la vivono e se la giocano facilmente, tutte sopravvivono, anche le migliori. Ma questo non lo accettavo in quegli anni ed ancora oggi fatico a farlo, adesso  che la maturità mi suggerisce che sebbene il 50% della colpa era mia, l'avevo comunque discolpata in ogni strato della mia coscienza perché c'è un limite nel colpevolizzarsi ed è quando si arriva ad annullare se stessi per il bene degli altri.