lunedì 19 marzo 2018

LA BRAGA NERA




Incontri un collega che non vedevi da qualche giorno, ti fermi due minuti a parlare. Uno scambio veloce di battute, entrambi siete in pausa dal lavoro: ciao, come stai? Bene, sono un po' stanco. Il caldo è tremendo, poi ultimamente non sto bene, non so se arriverò a fine estate, vivo intendo. Già pure io sono messo male, c'è da crepare dove mi hanno assegnato oggi, eppoi il caldo. Guarda non so come sia possibile arrivare a questi ritmi di lavoro. Ma prima di mandare il prodotto a certe velocità, le provano almeno le postazioni? Ahh non lo so, qui dentro son tutti matti. Già, è vero, pazzesco.
D'un tratto all'orizzonte ecco stagliarsi la figura di un caporeparto. Ti guarda, sapeva che stavi parlando. Ti fissa con immensa cattiveria, quasi da pazzoide omicida. Viene avanti velocemente, a grandi falcate, con l'andatura di uno che sta per venirti a dare bastonate. Il viso caino, paonazzo di rabbia. Poi si ferma, rallenta, cambia direzione e sembra proseguire oltre. Ma ti fissa, continua a girarsi ed a guardarti, a guardarti e girarsi. Poi sparisce dietro dei macchinari.

Continui a parlare con il collega: hai visto come mi guardava? Il male più assoluto. Meglio che ci togliamo da qui, poi ci sgridano per niente. Beh ma che stiamo facendo di male? Eh lo sai che non importa questo. Se vedono che chiacchieri vicino alle postazioni di lavoro s'incazzano. Eh ma con altri non succede. Certo, ti sgridano in base a chi sei. Puoi anche metterti pancia all'aria, se sei un loro amico. Si lo so che solo alcuni possono. Siamo figli di un Dio minore, come il film. Meglio che vai, meglio che andiamo, se ritorna poi ci sgrida. Dai, ci vediamo. Ma comunque guarda che io non ho paura. Manco io, però meglio non provocarlo, quel demonio.

Improvvisamente, da dietro un bancale, ecco però sbucare il caporeparto. Ti viene addosso, così vicino che riesci a sentire persino l'alito cattivo fatto di caffè e sangue, caffé e budello, caffé e raccapriccio. Non provi nemmeno a difenderti, non riusciresti: la tua bocca arsa non beveva da ore, la lingua si blocca, non riesci a deglutire e non ti escono le parole se non accompagnate da un filo di voce. Arsa poiché in linea non avevi mai il tempo di correre alla fontanella aziendale e riempirla. Eppoi sei sempre così stanco, ti fanno male le braccia, gli occhi e la mente, oltre che ti reggi in piedi a fatica. Da vicino lui è ancor più orribile: il viso gonfio e rubicondo è incandescente di rabbia; la bocca aperta quasi deformata, divaricata in modo inverosimile, e da dente a dente colava un filino di bava molto densa e scura; lo sguardo - ahhh lo sguardo! - non v'è parola alcuna per descriverlo, ma era puro odio primordiale. Minaccia di farti del male, e urla. Urla ma non riesci bene a sentire cosa dice, benché lo capisci, lo senti dentro. Le tue orecchie sono chiuse, i timpani spenti, i sensi interrotti e ti chiedi perché non riesci a comprenderlo nonostante sia a pochi centimetri, perché le tue orecchie si rifiutano ormai da anni di ascoltare, rintontite dal rumore della produzione, dalle paure verso i superiori, dai pensieri urlati dentro di te, dalla violenza espressiva e fattuale senza eguali. Non lo segui per questo motivo, perché sei saturo di tutto questo, oppure era orgoglio? Comprendi solo il pezzo finale del suo dialogo, chissà per qual motivo, forse perché comprendi che sta tutto per terminare, con quel suo: ".. non te lo dico più!" che suona come una minaccia esistenziale. Eppoi ancora rimbomba il tuono "..mi stai ascoltando oppure no? Quante volte ti ho detto di non di non farmi arrabbiare? Vuoi che ti faccio licenziare? Forza vai a far la pausa nel refettorio!"

Quanti pensieri detti senza bocca? Quante sensazioni ha represso quel viso per deformarsi così e poi dire soltanto di andare a sbattere il culo altrove? O forse hai perso un pezzo del discorso? Cosa ha detto davvero? Lo hai sentito? Ma poi sei davvero te il male aziendale? Quelli come te? Quel problema per il quale qualcosa di imprecisato va storto? Sei te colui che crea il dissidio? Perché parli? Perché socializzi, nel bene o nel male? Perché il capo ti odia? Perché odia tutti coloro che non gli lustrano il culo? Perché l'ora e mezza passata a guardarti mentre sgobbavi, con sguardo torvo, era solo per fini lavorativi? Perché il suo di lavoro permette di socializzare con chi vuole e per quanto vuole, mentre la tua socializzazione, il tuo dialogo, è comunque fuorilegge?

(Goondah)

martedì 7 febbraio 2017

IL BENE DEGLI ALTRI


Lavorare in quel posto per me era diventato quasi impossibile, perché quel luogo lo paragonavo sempre più all'oblio, quello profondo, che si prestava più alla psichiatria che alla sanità mentale e mi domando, ancor oggi che fortunatamente ne sono lontano, se era un oblio cosciente o incosciente. 

Perché ho voluto spesso vendicare me stesso là dentro, malgrado tutto, aspettando proprio il momento di una schiarita del cielo sopra la mia testa per sferrare l'attacco. Per colpire, con più veemenza, condannando il nemico al mio giogo per vederlo perire sotto alle mie bordate. Non mi rendevo conto che gradualmente così facendo avevo assunto la stessa immagine e consistenza di quei mostri e che il bambino impaurito e prigioniero dentro di me quasi mi detestava. Io che quel bambino l'avevo protetto con veemenza, sentendolo piangere più volte nella notte, non capivo perché col proseguire degli anni non riusciva più a vedere in me un amico. 

Gli facevo paura e onestamente parlando facevo paura anche a me stesso. Mi sentivo come un demonio e vedevo gli altri raccogliere tacitamente questa stessa idea. Cosa volevo dimostrare? Che la vendetta era più forte della morte stessa, quasi come ne Il Canto dei Filosofi? Oppure volevo soltanto render loro quella fottuta pariglia, vendicando tutte le mie sofferenze? Che cosa poi esattamente? Ora che da anni sono fuori da tutto questo non è ancora perfettamente chiaro nel mio spirito ciò che è accaduto, e forse non lo sarà mai. Trent'anni dopo vorrei dire che non lo rifarei, ma non avrei dovuto attendere tutto questo tempo per dirlo, poiché trenta minuti sarebbero stati sufficienti. 

Perché si può sopravvivere alla vita nel gregge pur non amando o odiando in continuazione, in quanto per vivere non è necessario abbracciarsi o baciarsi sulla bocca ovunque e comunque. Sono peccati di gioventù questi che erano durati anche troppo tempo. In gruppo ci si spia, si è gelosi, ci si detesta anche. Bisognava sopportarmi e bisognava che io sopportassi loro, tutti quanti. Lavorare in squadra non è semplice, poiché questi collettivi non si scelgono l'uno con l'altro, ma devono necessariamente vivere e agire in comunità. Le squadre lavorano come in una sorta di patto sociale rinnovato dallo stesso successo personale dell'individuo, dal quale vi è una chiara correlazione. Poiché è il rispetto di questo contratto che costituisce il valore di una squadra e di conseguenza, del singolo individuo stesso. 

Non ci sono squadre che se la vivono e se la giocano facilmente, tutte sopravvivono, anche le migliori. Ma questo non lo accettavo in quegli anni ed ancora oggi fatico a farlo, adesso  che la maturità mi suggerisce che sebbene il 50% della colpa era mia, l'avevo comunque discolpata in ogni strato della mia coscienza perché c'è un limite nel colpevolizzarsi ed è quando si arriva ad annullare se stessi per il bene degli altri.

venerdì 20 marzo 2015

QUANDO SI SPEGNE IL SOLE

Quando la sera acquieta membra ed anima e scurisce il lume ma non il fuoco, i pensieri corrono allora lungo sentieri nevralgici, di sofferenza e di dolore, di un ricordo di passione. Così, soccorrendo il tempo, cambiamo d'agito, cercando a tentoni un più rimarchevole pensiero, potente e tacito. Ma poi quando giunge l'ora del mattino, quella dove i cani corrono ad abbaiare e dove del male non si sente più alcun frastuono, il mare calmo improvvisamente si congiunge al cielo, avvolgendo di blu l'universo, immenso e se penso grande come gli occhi non hanno visto mai. Così quando poi la verde brezza finalmente risoffia nella nostra vita, mentre ancor teniamo chiusi gli occhi vediamo gli stormi di uccellacci volar di nuovo in cielo, portatori dell'eclissi e capaci di soffocar persino il pittore più diabolico. Ma non sappiamo vivere in pace, così mentre il sole nero maledice la sua stessa fronte, allo stesso tempo benedice la terra con il senso di imperfezione.
 

Ed è qui che il ricordo beffardo si sbieca ed un urlo stridulo irrompe nella quiete: giunge l'orrore di un mondo senza colore, bianco e lucente di perfezione e candore. Non siamo pronti a questa chiarezza, ove il quale appariamo tutti sporchi. Come un impulsivo terremoto di sangue e merda, che spegne il sole come una lampadina. Ombre tetre corrono ora sul lungo muro della vita, quei sentieri nevralgici di prima, che affogano nel dolore e nella triste e sterile esistenza del più imprevisto orrore. Non c'è più risveglio da questa vita, non c'è più perdono, della occulta tenda nera resta appena un drappo funebre, che non protegge dalla luce mortale il nostro stesso universo. Così luce e perfezione non son degne del nostro nome poiché siamo creature impefette, scarti esistenziali necessari solo a noi stessi. Abbiamo bisogno del male per vivere e godere, come storpie creature accondiscendenti di un attimo di fulgore, sovente scambiato per vita ma in realtà solo patimento, postribolo e dolore.

E quando poi si spegne il sole, non vediamo che tutto nero per il crollo del colore, torniamo nell'occulto di un sogno che sin dalla nascita a fatica ancor ci alleva. Ci corregge da una vita che spesso confondiamo con il destino, oppur ci autoelogiamo per chissà qual carattere fatto di discendenza ed eloquenza, per chi sente, per chi ci pensa. Così in questa triste essenza di nulla dichiarato, non ci spaventa la tenebra bensì l'inesistenza, cioé la più pallida sensazione di vuoto e di terrore, della luce divina ancor più di quando si spegne il sole.


domenica 18 marzo 2012

SEDICI ANNI DOPO.



Sedici anni dopo.

pt.1

Sento ancora il dolore,
sedici anni dopo.
Vivo ancora il male,
generato dalla tua dipartita,
la sensazione di vuoto riempito male,
nella giacenza di un essere incompleto,
creato per riuscire nella vita
e finito in un angolo remoto dell'inferno
a quasi pregare per morire.
Vedo così il mio tratto,
le mie fattezze deteriorarsi,
ed il mio animo cambiare, diventare
qualcosa di ignoto, oscuro.
La salvezza, orientata all’astro del tuo firmamento
sarebbe proprio quella di pensare a te.
Poiché anche se breve
quell'immagine luminosa
che mi hai lasciato
ancora oggi mi acceca di purezza,
simbolo incontrastato di bontà.
Allora si che scruto il cielo,
cercando conferme sull’esistenza di Dio
che vi sia un qualcosa
di così arcano e potente,
che possa un giorno farmi riprovare
una sensazione del genere.
Ma dentro ahimé so bene
che non è nessuno, oltre me.
Che nell'orrore più nero
che ho vissuto senza di te
in fin dei conti sono solo.
Posso solo asciugarmi gli occhi,
ancora una volta,
e muovere l'ennesimo passo avanti.
Poiché non ho altre direzioni,
ed indietro nessuno mi farebbe tornare.


Sedici anni dopo.
pt.2


Penso alle atrocità che hai vissuto,
alla parola fine che per anni
aleggiava sopra la tua testa,
mentre sentivi che il tuo mondo
stava scomparendo, o forse
tu per lui, lasciandoci soli, per sempre.
Non riesco a credere che
non sei impazzita,
urlato di dolore
dubitato del tuo Dio,
lo stesso che nella mia incoscienza
per gli stessi motivi
io avevo da tempo rifiutato.
Ma questa era la differenza fra noi:
io sono un essere incompiuto,
un malformato individuo
che ha vissuto a ridosso del bene e del male,
per troppi anni, solo e senza guida.
Padrone incontrastato della linea divisoria,
ho dominato le avversità inglobandole in me,
pensando che sarei stato sufficientemente forte
di trascinarmi verso l'obiettivo.
Quale fosse questo, non mi è mai stato chiaro,
nonostante sai, di ragionamenti, ne compiuti parecchi.
Quindi ho pensato di scriverti questo testo,
forse presuntuoso e probabilmente inutile,
per dirti che ti voglio bene.
Che non ricordo, se non a livello di sensazioni remote,
cosa voglia dire essere amati da una madre,
e che ho bisogno di te.
Nella festa del padre quindi incrocio le spade,
come sempre, per uno nato dall’unione
di piume d'angelo e unghie di demone.
Eccomi ora, posto come un deforme,
per abbozzare queste parole
per chiederti di aiutarmi a ricordare qualcosa,
per farmi ridere, sedici anni dopo.


Sedici anni dopo.
pt.3


E piango per noi,
per quello che non c'è stato,
per quello che ho mancato,
per quanto ho dimenticato.
Rivedo con la mente
le poche fotografie della vita,
dove sorridevi, dove sembravi felice,
uniti come madre e figlio.
Dove mia dolce mamma,
il mattino pregavi per me.
Dove riuscivi a farmi stare bene,
a proteggermi, a chiedere perdono agli dei
per tutte le mie malefatte e benedirmi
nel mio cammino.
Dove si creava quell'anello di collegamento,
che faceva in modo che il mio pensiero
inseguisse sempre il tuo, e viceversa.
Non avrò mai più tale legame,
non riuscirò a tessere le trame della tempo
e tornare indietro.
Se mai sentirò più tali sensazioni,
vorrà dire che starò morendo.
Che la strada che porta al paradiso
si sarà aperta dinanzi a me.
Non mi tirerei indietro,
se intravedessi te:
la percorrerei correndo.

(Goondah)

sabato 3 marzo 2012

QUEL CHE SEMBRA NOTTE

https://public.bay.livefilestore.com/y1pFczqczyR5BuYAFxuudYOywibCKhYXaARJ3_KnV6ZUgWsI2JAexIPjFJSAO4iCQUmC2WviaoIO8-OxMQ8DlqVnw/120303_152451.jpg?psid=1


QUEL CHE SEMBRA NOTTE


Guardo attorno a me
quel che sembra notte,
ma che prendendo forma
ricorda più un camino.

Arde infatti, quel che pare
il braciere del peccato
mentre nell'aria già si sparge
il senso del consumo.

Quanti sono ormai
gli anni passati affianco
dentro un cuore disegnato
con i petali e con le spine?

Ma ombre e sensazioni,
veloci scorron via
dentro un sentiero cancellato
in quel che sembra notte.

Ho paura, terrore, non andare!
riportami la luce,
quel senso della via.

Ho l'angoscia, il timore, di restare solo,
scappa la speranza,
che un domani ancor ci sia.

Ma tutto or sembra immobile,
ed il silenzio invade il mio sorriso
come quando sono nato,
come quando mi hai lasciato.

Così, piango la solitudine
in quel che sembra notte
svanisce l’ultimo incendio
il soffio del mio tempo.

Non voglio dimenticare,
che per un attimo ho vissuto anch'io,
che visto con gli occhi giusti
sono quasi stato un dio.

Ma per tutti c’è un momento
di vita e di miracoli,
di desideri e rimpianti,
sensazioni e pensieri.

Posso abbacchiarmi ancor se voglio,
eppure acconsentire,
così é il senso di quel che vive,
così lo è di quel che muore.

Vedere un epoca svanire
o forse cancellarmi io da essa,
spegnere ogni speranza
in quel che sembra notte.

Rauco è cosi, l’ultimo sospiro
il lancio nell’oblio
con il corpo diventato turgido
in un disperato clima.


sabato 10 aprile 2010

IL SENSO DELLA DISFATTA



Il senso della disfatta.

Soffice è il vento che culla la disfatta,
poiché altro non porta che un senso di incompiuto,
scevro di pesantezza, dimensione e forza,
soltanto intriso di delusione per un destino ormai svanito.
Poteva andar meglio, sicuramente questa vita,
nutrirsi dello stesso pane e dello stesso vino di tante altre piú compiute, 
che senza sforzo e senza ardore, terminano comunque un percorso dignitoso.
Viviamo per creare il sogno infinito di un senso di bene, come pittori ispirati soltanto a metà,
che usano i colori con avarizia, mentre di tristezza e tenebra abbondano,
rendendo i loro quadri esperienze monocromatiche, meravigliosamente incomprensibili.
Cosí, anziché far nascere lumi da solitari amplessi di luce ed ombra, 
di sole e oscurità,
come in un incesto malato fra sentimento e amor proprio,
portato all'eccesso dal senso di necessario
creato ad arte per sopportare la nostra cieca condizione.
Cosí mi tormenta il rimorso di quando ho acquisito la consapevolezza ma non il vigore,
il pensiero fugace spoglio di alcuna dedizione, 
E cosí mi sovviene che se tutto questo non fosse mai accaduto,
oggi le foreste del mio spirito si perderebbero sul mare,
evitando che la tempesta infuocata
si abbattesse sulle nostre case, dove dimora l'anima e le cose preziose.
Senza pietà è infatti il vento
quando canta il poema della morte,
E nei sibili fra legna e mura intona una canzone, che ad ogni modo urla il nostro nome,
dimenticato dalla notte dei tempi e dall'esilio terreno,
e da tutte quelle necessità prive di sostanza,che la civiltà ha portato al mondo.
L'orrore nero di una specie che si estingue
è poca cosa di fronte ad un intero pianeta morente.
Siamo come marionette vendicative, digrignanti, declamanti e dall'animo mendace,
e ci siamo rivoltati verso il nostro creatore non appena volse lo sguardo per un attimo su qualcun altro.
Cosí siamo tornati ad esseee quello che da sempre calpestiamo, con odio forsennato e amore di zucchero,
Mentre i sensi di colpa perdono tempo a camminandoci sul ventre insonne.
Forse potrai chiederti un giorno, di qual giorno, che non sarà mai quello che ti aspetti,
quale epoca mai poteva essere cosi folle,
cosi stupida, ottusa e maligna
da pregiudicare quelle successive.
Da non lasciare traccia alcuna
di amore e benevolenza nemmeno in linea di principio.
Forse certe domande, dovremmo farcele piú,
perchè oggi non più necessarie, poiché ormai é tardi e nulla piú potrà ricondurci in salvo.
Il dolore dell'incompiuto assilla le mie orecchie,
non permettendomi di udire, nemmeno il canto di questa canzone, che si spegne e sprofonda nell'oblio, assieme a me, assieme a te.

(Eoie)

sabato 24 gennaio 2009

LA MADRE, LA FALCE E L'OSCURO MANTELLO

http://www.ai-net.it/sfondi_vista_microsoft_gratis/fantasy/fantasy/2%20(2)la-morte-sceletro.jpg

La madre, la falce e l'oscuro mantello



Lungo pascoli infiniti anche al divino
vedo stretti e angusti percorsi d'ombra
sento il mare sbuffare con forza il senso andato
di lealtà e orgoglio fido e inviolato.
E respiro brezze di vento foriero
percorse da fulmini di tempesta furente
nel crogiolo infuocato di mille scheggie di vetro
fioccanti d'inaudita audacia e potenza.
Nel riflesso d'un lampo saettante
percorro il miglio alla velocità sonora,
d'un tuono roboante che segue il passo sovrano
mentre dal solco il pianto è ormai disumano.
Pregano in cerca del nero sigillo
a cavallo del drago dal respiro brillo.
Dal rigo perenne di traccia maligna
il demone urlante annuncia il mio arrivo.
Mille e migliaia di persone festanti
dal cranio pittato di falso amore
accolgono il mio arrivo in tempo per morire
per lenire il peccato a fin divenire.
La santa creazione devo ammazzare
giustiziere nel mondo, arcano viaggiatore.
Per tutto il bene per sempre fautore
è disceso dal cielo il divino mietitore
portatore finalmente dell'equilibrio mancato
un triste dono dal risvolto dorato.
Da genti e popoli prenderò il cuore
vittime illustri di un male trionfatore
corrotti e blasfemi son solo sinceri
ma di ipocriti semi arricchirò il mio cammino.
Perchè la morte è l'unico destino,
e non c'è fuga dal corridoio oscuro.
Nemmeno per coloro che sanno amare
o che dal cielo ricevono il riflesso divino.
Perchè ben si sà che nell'uomo, o' suvvia
non è insito alcun riflesso di luce o calore
ma questo non mi impedirà certo d'amarlo
perch'io sono la vita, la morte ed il triste dolore
è nel cono di luce traccio il tetro colore.
Perch'io son la madre, la falce e l'oscuro mantello
e vedo nel cuore del mostro ogni sinistro tassello.

(danleroi)